Programma
2023

20 Giugno
Martedì 20-06-2023
ore 15:30
Teatro Sperimentale - Sala Pasolini

Il mio film

Rosalind Nashashibi

VIVIAN’S GARDEN

Guatemala/Inghilterra 2017 , 30'

Focus Rosalind Nashashibi

Alla presenza della regista e del curatore   

Vivian Suter e la madre, Elisabeth Wild, sono due artiste di nazionalità svizzero-austriaca che hanno scelto di vivere in Guatemala, dove hanno messo su uno spazio matriarcale in un ambiente che pur destando terrore è accogliente. L’ultranovantenne Elisabeth e l’ultrasessantenne Vivian sono legate come due sorelle non sposate. Il film segue da vicino, ma con un approccio sognante, la loro vita artistica, emotiva ed economica, compresa la famiglia allargata – gli abitanti maya del vicino paese, che fanno da guardiani e aiutano in casa, e un assortimento di cani – portando uno sguardo affettuoso su questa istanza di complessità post-coloniale.

 

La Tela Real è il titolo di un imponente quadro di Velázquez conservato alla National Gallery di Londra. Olio su tela (182 x 302 centimetri), appunto, ma la tela reale è quel recinto effimero che permette di mettere in scena la caccia al cinghiale selvatico del re Filippo IV, lasciando al sicuro il pubblico, curioso o distratto. Nel 2020, quando era la prima artista in residenza del museo londinese, Rosalind Nashashibi ha osservato con attenzione i dipinti spagnoli. Per il suo Winter Solstice ha ripreso la composizione di Velázquez, un perimetro ovale attraversato sul lato sinistro da un albero, adattandola a un altro soggetto: una figura umana al bagno in un paesaggio, immersa in una pozza dalla stessa forma tracciata dalla tela regale. Il risultato è enigmatico – forse si tratta di un’allegoria? Della pittura, nella pratica come nello studio, Nashashibi ha ritenuto un assunto fondamentale: ogni rappresentazione ne convoca necessariamente un’altra, secondo una serie di spostamenti, aggiustamenti, traduzioni o, a volte, pentimenti. L’indicazione è valida anche per i suoi film anzi, ci si potrebbe pure spingere oltre per affermare, come in Eyeballing, che tutto, o quasi fa immagine (pareidolia). Ma qui l’immagine accidentale è trovata. Meglio: è il risultato di un incontro. E forse i film di Rosalind Nashashibi appaiono tutti, nella loro eterogeneità, sotto il segno dell’incontro: un testo (Petrolio di Pasolini in Carlo’s Vision), un luogo (Electrical Gaza), un ritratto (doppio, in Vivian’s Garden). Nashashibi ricorda che «i materiali in sé, cioé le cose, sono tangibili nei miei film. Ci sono persone, situazioni o luoghi, a volte anche eccezionali, ma a ben vedere trattano tutti di come le persone toccano queste cose, o dello spazio fra le persone, o fra le persone e le cose». L’attività solitaria della pittura (nessuna residenza poteva poi essere più solitaria di quella alla National Gallery, in piena pandemia) è accompagnata da un’altra più estroversa se non, a volte, addirittura collettiva. Il lungo Denim Sky è una sorta di avventura fantascientifica interpretata da familiari e amici, un viaggio interstellare trattato senza troppi orpelli, come se fosse un gesto quotidiano. Prendendo il titolo alla lettera: come indossare un paio di jeans. La loro tela blu è in fondo dello stesso colore del cielo.

  

MILENA GIERKE crediti Martin Schoeller

I film di Rosalind Nashashibi (nata a Croydon, Regno Unito, nel 1973) mettono a nudo i ritmi e schemi del quotidiano, percorrendo i confini fra realtà e finzione. La regista si serve di situazioni reali ma non per documentare la vita vera con un approccio antropologico, bensì in quanto affascinata dai riti che mettono in scena i gruppi sociali quali la famiglia, la comunità, gli studenti, analizzando lo scorrere del tempo e le modalità di interazione con il nostro ambiente e gli uni con gli altri in situazioni quotidiane. I film di Nashashibi calcano gli schermi internazionali da vent’anni, anche se a partire dal 2014 l’artista si è progressivamente concentrata sulla pittura, la disciplina che aveva studiato fin dall’inizio a Sheffield e alla Glasgow School of Art. Nel 2020 Rosalind Nashashibi ha inaugurato le residenze artistiche presso la National Gallery di Londra, mentre nel 2022 ha finito di girare un nuovo film, Denim Sky, dopo una lavorazione di quattro anni; si tratta di una trilogia sul viaggio nel tempo, il senso della comunità e la comunicazione. Negli ultimi anni l’artista ha esposto a Documenta 14 (2017), fka Witte de With (Rotterdam 2018–19), Secession (Vienna 2019) e CAC (Vilnius 2022).

Credit photo: The National Gallery

 

Intervista a Rosalind Nashashibi

Enrico Camporesi

In Denim Sky, il tuo ultimo lavoro, la pittura ha una parte importante pur senza essere il vero soggetto del film. Vediamo primi piani dei quadri di Emil Nolde nella chiusura della prima parte e, in seguito, i personaggi sono filmati in rapporto con altre opere d’arte. Sto pensando al riflesso sul vetro del quadro Red Lacquer di Stanley Cursiter, o ai dipinti spagnoli raccolti alla National Gallery. Inoltre le riprese si sono svolte in un periodo in cui avevi ricominciato a dipingere. Volevo sapere come inquadri il rapporto fra questi due elementi, sono traiettorie parallele o convergenti?

Ho ripreso a dipingere seriamente nel 2014, quattro anni prima di cominciare a girare la prima parte di Denim Sky. È una domanda che mi fanno spesso ma il rapporto non si risolve facilmente in modo descrittivo. 

La continuità fra cinema e pittura si può riscontrare nella mia pratica, che tende a spingere su immagini ed esperienze affinché mi si rivelino in un momento di comprensione. Mi capita di percepire un tema visivo che mi incuriosisce, che si tratti di Elena [Narbutaite ̇] che parla degli esercizi per il mento che fa la sua prozia riflessi su un dipinto con suppellettili per il tè in lacca rossa, o di due cigni di cristallo intrecciati fra loro, e di volerlo esaminare più a fondo filmandolo o dipingendolo. In tal modo spero di descrivere momenti che si cristallizzano in qualcosa di più duraturo e affascinante. Per quanto mi riguarda quelle cose mi stanno succedendo per la prima volta; ho fatto avvenire qualcosa in un film o su un quadro che desideravo vedere, per poter smontare e identificare il primo impulso. Potrebbe essere questo il motivo per cui spesso nei miei film ci sono delle vignette, come piccole scene fra virgolette, collegate fra loro alla stregua di perline di una catenina, facendo da leitmotiv che si trasforma da un quadro a un altro. La ricerca del collegamento che descrive un rapporto è la motivazione sempre in essere nel realizzare un’opera.

Rimanendo sul tema dei collegamenti, e magari anche su quello della pittura: nel 2017 con Vivian’s Garden hai inaugurato una nuova direzione di ricerca. Potremmo dire che prima non ti eri occupata della forma del ritratto nei film? È stato l’incontro con Vivian Suter ed Elisabeth Wild, entrambe pittrici, a farti pensare in modo diverso l’interazione fra osservazione e partecipazione?

Sì, è vero, e credo che quell’incontro mi abbia cambiato la vita. Elisabeth e Vivian, madre e figlia, entrambe già anziane, vivevano in due case che avevano costruito su un pezzo di terra a Panajachel (Guatemala), coltivato fino a ricreare una sorta di giungla. È stato il modo in cui, nel loro spazio matriarcale, l’atto del prendersi cura e del fare arte si fondevano in una cosa sola a ispirarmi a realizzare Denim Sky, cercando di abbattere tutti i confini fra la mia vita personale e il lavoro. Loro mi hanno mostrato come la creatività può fare da forza motrice del vivere, cosa che – da recente genitrice single – mi ha dato speranza indicandomi un cammino verso la gioia anziché il conflitto fra i doveri e il fare arte. Ma per dare una risposta più diretta alla domanda, tutto ciò mi ha guidata a partecipare attivamente piuttosto che fare l’osservatrice silenziosa. E mi ricorda anche una cosa che ha detto una volta mia madre, «non ci dobbiamo escludere».

Io direi che, anche quando ti poni come osservatrice silenziosa, la maggior parte delle tue inquadrature non sono vedute incorporee. Sto pensando alle scene del New York Po- lice Department in Eyeballing, uno dei primi film che abbiamo programmato e quello che tu consideri l’opera del distacco dal cinema di osservazione che praticavi fino a quel momento. Nella sua ricerca di archetipi visivi diventa qualcosa di più astratto. È stato un cambiamento programmatico o più un momento induttivo che ti ha portato verso questa nuova forma?

Con Eyeballing è stato un cambio di rotta voluto. Ho deciso che volevo essere più esplicita con lo spettatore riguardo a ciò che mi interessava, dato che filmare gruppi di persone poteva indurre l’idea che ci fosse una storia di sfondo, una narrazione, cosa che all’epoca non era esattamente nei miei pensieri. Nel 2005 ho deciso di non includere persone, perché ciò può suggerire l’idea di un racconto, bensì di accogliere esclusivamente immagini archetipiche, come facciate architettoniche o oggetti inquadrati dalla mia macchina da presa, in cui tre punti, fori o segni sembrano formare un volto per via di una sorta di riflesso condizionato al riconoscere, affiancando loro quelle immagini con i poliziotti del NYPD in divisa. Questo costituisce un esempio del lavoro inquisitivo che conduco in direzione di una mia nuova comprensione.

Sentivo che il modo in cui noi percepiamo i volti su superfici inerti ha a che fare con una sorta di elemento di controllo interiorizzato; noi ci proiettiamo e ci riconosciamo nel mondo esterno invece che vedere una reale differenza, l’altro. E i poliziotti per me sono un simbolo di controllo regolatore esterno. Di fatto le loro uniformi funzionano quasi come la tirannia del vedere i volti – guardale, e conosci i tuoi limiti. Questa è l’idea che mi sono fatta di Eyeballing ma è un’opera aperta, altri l’hanno vista più come uno studio sull’escalation di consapevolezza e sorveglianza post-11 settembre, in particolare poiché è filmata nel primo distretto di TriBeCa, che ha subito un impatto disastroso a seguito dell’attentato.

Ciascun film può naturalmente essere interpretato in modi diversi, ed è anche vero che i film selezionati sono molto differenti fra loro. C’è quello che parte da un testo preesistente (Carlo’s Vision), il cinema d’osservazione (Open Day), la pareidolia preconfezionata (Eyeballing), la ritrattistica (Vivian’s Garden), perfino l’animazione (in Electrical Gaza). Naturalmente i programmi sono assemblaggi di tempi e generi diversi. Ma se ci fosse un filo rosso? E qual è il ruolo della finzione in questi?

Enrico, forse a questa puoi rispondere tu? ;)

 

(Intervista realizzata via email, maggio 2023)

 


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